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Messaggio Da mara Ven 19 Giu 2009 - 8:19

Aprirsi alla spiritualità e al trascendente Si tratta di un senso di riconoscenza e di gioia per avere ricevuto un dono, indipendentemente dal fatto che questo sia stato tangibile o meno. E’ un modo di sentire che ci porta a desiderare esattamente ciò che abbiamo.
Il termine deriva dal latino ‘gratia’. Anticamente nei monumenti veniva raffigurata da una donna con in mano un mazzo di fiori e di fave e accanto una cicogna.
La persona in grado di vivere la gratitudine apprezza ogni giorno che vive, e che sente come un dono e non come un peso, capisce che la sua vita viene resa possibile e semplificata grazie agli sforzi degli altri, è riconoscente verso i genitori. Anche quando accade qualche evento avverso trova ragioni e valori in grado di giustificarlo; prova di frequente un senso di meraviglia e di stupore per ogni cosa che non dà mai per scontata.
Ringraziare non è qualcosa che ha a che fare con l’inferiorità, non ci mette di fronte alle nostre incapacità, a ciò che non siamo in grado di avere o di fare da soli. Al contrario, saper ringraziare ci innalza e ci eleva perché è una forma di riconoscenza che sgorga dal cuore, quando d’improvviso, come in seguito ad una folgorazione, prendiamo atto che noi siamo frutto di una sorta di ‘miracolo’, che si rinnova costantemente, istante dopo istante. Non l’abbiamo chiesto, ci è stato offerto, e proprio per questo siamo chiamati a farne buon uso.
Inoltre, la gratitudine ci richiama alle nostre responsabilità: come parti di un tutto interconnesso e interdipendente siamo invitati a prendere parte attiva di questo complesso processo che comporta un flusso ininterrotto di attività e di energia.
A volte la gratitudine può sorgere d’improvviso, al termine di un periodo di difficoltà: a quel punto ci rendiamo conto di quanto il normale scorrere delle cose non sia ‘dovuto’, ma un’opportunità che siamo chiamati a valorizzare nel migliore dei modi. A quel punto ogni singolo momento di vita comincia ad essere esaltato, se ne sente la preziosità, la sacralità, tale per cui anche le briciole non vanno sprecate.
La gratitudine può avere una forma personale, che è orientata verso una persona specifica ed un beneficio che questa ha arrecato, e una transpersonale, verso Dio, una Entità superiore, o il cosmo. In tali istanti ci si sente in pace, fortunati, graziati.
La gratitudine si compone essenzialmente di tre aspetti: un caldo apprezzamento per qualcosa o qualcuno, una buona disposizione d’animo verso la persona o cosa, una inclinazione ad agire in modo conseguente a tali vissuti.
Si tratta di una e vera e propria potenzialità che, secondo l’approccio della psicologia positiva, aiuta a vivere meglio. Alcune ricerche hanno messo in evidenza che le persone particolarmente grate sono più propense ad effettuare regolarmente esercizio fisico, ad avere meno malesseri fisici, a valutare complessivamente bene la loro vita nell’insieme, ad essere più ottimiste per il futuro, a riportare più entusiasmo, determinazione, energia.
Le persone grate non sono prive di senso di realismo, ma valutano in modo più positivo il presente e il futuro. Inoltre, è più probabile che abbiano livelli di spiritualità e di religiosità più elevati, che avvertano un senso di interconnessione con chi li circonda, sono più responsabili, meno invidiosi, attribuiscano scarsa importanza ai beni materiali, siano più aperte alle esperienze, estroverse, concilianti, meno nevrotiche. Si impegnano spesso in comportamenti prosociali, supportivi, nutrono sentimenti ed emozioni positive e vivono più a lungo.
La gratitudine si sviluppa tra i 7 e i 10 anni nei confronti di coloro che offrono qualcosa.
La sua espressione viene favorita dalla presenza di una consapevolezza spirituale e/o religiosa, dall’empatia, dall’umiltà, dalla capacità di mettersi nei panni degli altri, dall’avere una visione prospettica ampia della vita e dal considerare l’esistenza nel suo complesso e i suoi singoli elementi come un dono. L’inclinazione a riflettere, a contemplare, a considerare gli altri parte attiva del proprio successo, l’essere stati allevati in un contesto familiare in cui essa era considerata un valore sono altri fattori che la stimolano. Ad ogni modo, anche in età adulta essa può essere coltivata e accresciuta, soprattutto come effetto di una profonda riflessione su se stessi. A quel punto potremmo restare stupiti nel renderci conto che quel che riceviamo è costantemente maggiore di quanto offriamo.
La sua espressione può essere ostacolata dal fatto di sentirsi delle vittime passive, dal senso di inferiorità, di disistima, dalla scarsa autoconsapevolezza e riflessione su di sé, dalla focalizzazione massiccia sugli aspetti più materiali della vita, dal narcisismo. Questo porta a considerare ciò che compiono gli altri nei nostri confronti come qualcosa di dovuto e non come un dono, atteggiamento che impedisce la reciprocità.
La persona che non riesce a provare gratitudine spesso cade nell’invidia: quello che sento di non riuscire a possedere e che ritengo mi appartenga di diritto lo invidio. L’invidia compie un ulteriore passo, è distruttiva: se non posso raggiungere ciò che voglio e che sono convinto mi debba appartenere, non puoi possederlo neppure tu, così preferisco distruggerlo. E da qui attacchi efferati a ciò che si vorrebbe, ma non si riesce a conseguire, con grande dolore da ambo le parti.
Avere ottenuto delle gratificazioni sufficienti da bambini pone le basi per un senso di soddisfazione, di sazietà che se fosse assente darebbe adito ad una ricerca spasmodica e inevitabilmente destinata all’insuccesso di sostituti tali da colmare il vuoto, prima di tutto affettivo, che ci si sente dentro. Tutto questo, però, si può recuperare anche da adulti, diventando dei buoni genitori di se stessi, in grado di offrirsi i riconoscimenti necessari per il proprio benessere e facendo poi altrettanto anche con gli altri. Se ci ostiniamo a ritenerci vittime di privazioni che ci sono state inferte in modo volontario non riusciremo mai a perdonare, a lasciare andare il dolore e il legame negativo che ci connette al passato e alle persone che siamo convinti ci abbiano ferito. Prendere atto che tali persone hanno fatto il possibile e, al limite, del loro meglio ci spinge non solo ad accettare persone e situazioni per quelle che sono state, ma apre le porte alla considerazione che come in passato, anche nel presente, esistono diverse possibilità e che sta solo a noi, qui e adesso, effettuare quelle modifiche che ci possono far stare meglio.
Anna Fata

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Messaggio Da mara Ven 19 Giu 2009 - 8:26

PORRE FINE ALLA SOFFERENZA

Sarà capitato a ciascuno di noi: di fronte ad un dolore, ad una sofferenza, la reazione immediata comporta la chiusura, la protezione di sé. Una mano che va a coprire le tempie o la pancia dolente, la permanenza in casa o, al limite, in ospedale, la riduzione o l’annullamento di ogni contatto sociale. Sono tutte manifestazioni che denotano un centrare le risorse, le attenzioni, le energie, su se stessi.

Di per sé, psicologicamente questo processo ha un valore: ritrovare e canalizzare tutte le forze disponibili per sanare lo squilibrio psicofisico. A fonte di una aggressione o autoaggressione, ci si protegge e si fa scudo con tutto se stessi.

D’altro canto, ad una lettura più ampia, che comprenda anche un piano energetico e spirituale, si nota la profonda distorsione di questo comportamento. Ogni sistema non può funzionare bene in uno stato di chiusura. Anzi, all’estremo, la chiusura totale corrisponde alla morte fisica.

Da qui risulta evidente come la chiusura – che in un primo momento, che coincide con il ritiro in sé e l’ascolto, stimola la presa di consapevolezza della propria condizione -, in realtà, non fa altro se non esacerbare e cronicizzare la sofferenza. Sofferenza che si esplica anche con vissuti assai gravosi come il senso di ribellione interiore (“Perché proprio a me?”), la depressione (“Non c’è nulla da fare”), l’ansia, l’incertezza, la scomparsa di ogni forma di progettualità a volte nel medio-breve termine, a volte anche nel lungo periodo, il senso di solitudine.

Ed è soprattutto la solitudine, o meglio, la percezione di questo vissuto che produce la ferita più profonda, che va a risuonare con quella originaria che molti di noi hanno subìto, loro malgrado.

Talvolta la presenza di persone care, oppure di individui che condividono le medesime forme di dolore può alleviare tali vissuti, ma spesso non basta. Non basta perché manca una persona che nel frattempo si è persa per strada: noi stessi. E con noi anche la possibilità di sentire Qualcosa di superiore di cui siamo parte costituiva che ci trascende e ci accomuna tutti. Il dolore di una persona è il dolore di tutti.

Restare aperti di fronte al dolore, alle sofferenze è una sfida che nel piccolo o nel grande della nostra quotidianità tocca ciascuno di noi. Nella maggior parte dei casi i dolori vengono estremizzati a causa del retaggio di passato che portano con loro. Un disagio presente richiama tutto il bagaglio di pesantezza che negli anni si è sedimentato, a partire dal dolore d’origine che può averlo causato.

E ancora: costruire la propria identità, con questa calcificazione, sul dolore, sulla propria condizione di vittima delle circostanze, se da un parte fa soffrire, dall’altra suscita sicurezza. Pur di sapere chi si è, si è disposti, troppo spesso, a costruirsi una identità ‘sul negativo’.

Lasciare andare le sofferenze passate, permettere a quelle presenti di sorgere, attraversarci, evitando di aggrapparsi, di identificarsi con esse, senza ribellione, critica, giudizio, senza voler trovare una ragione a tutti i costi, può essere un valido modo per restare nel flusso delle cose.

Per fare un paragone con il movimento dell’acqua del mare: a volte appare placida, altre volte tumultuosa, a volte azzurra, altre volte blu, verde, o sabbiosa. Sapere che questa mutevolezza può essere ascritta al moto dei venti, alle fasi lunari, o alle azioni umane poco incide sulla natura dell’evento. A volte è meglio limitarsi a cogliere le cose per quelle che sono, senza addentrarsi con la ragione ove questa non è in grado di accedere.

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Messaggio Da mara Ven 19 Giu 2009 - 8:33

FELICITA?NO,GRAZIE!
Mi sono trovata ad assistere ad un dibattito tra due persone anagraficamente e culturalmente mature, nel quale più volte sono stata chiamata ad essere coinvolta, con una non meglio celata ritrosia. Argomento: la felicità e l’essere felici.
Da un parte, la persona più giovane, iscritta ad un seminario per accrescere la felicità, grazie ad appositi esercizi. Dall’altra, quella più avanti con gli anni che sosteneva che la felicità non esiste, se non in brevi e fugaci frammenti.
In quella breve, ma intensa e animata scena mi si sono ripresentati agli occhi immagini di me, 10-15 anni fa, quando, nel pieno dell’entusiasmo, della buona fede e della buona volontà, credevo fermamente alla possibilità non solo di passare nel gruppo dei sostenitori del bicchiere mezzo pieno – con documentate testimonianze di ricerche scientifiche che vedono innalzati di pari passi alcuni dei principali indici di benessere psicofisico, sistema immunitario più reattivo, indice glicemico più basso, minore rischio di ipertensione, infarto – in cui ottimismo, pensiero positivo fanno da padrone, ma anche la felicità ha il suo notevole ruolo. Già, perché come sostiene il noto Martin Seligman, psicologo americano tra i principali fondatori della psicologia positiva, la felicità si costruisce.
Se è vero che cambiare prospettiva di interpretazione degli eventi, delle situazioni, dei comportamenti umani è possibile e verosimilmente anche benefico, in molti casi, è altrettanto assoldato che dopo anni di ‘pratica’, di sforzo, d’impegno, alcuni meccanismi divengono innati. Forse, a quel punto, non si tratta tanto e solo di routine, schema, che viene messo in atto, quanto di un’accresciuta forma di consapevolezza. Un po’ come accade all’artista, al pianista, piuttosto che al pittore: quando arriva l’ispirazione, quella che trascende la persona, rispetto alla quale diviene un mero umile strumento, la tecnica non esiste più come qualcosa di separato dall’individuo, ma ne è parte costitutiva, come se fosse stata pienamente metabolizzata, digerita. La tecnica è stata superata. In fondo, non esiste più.
E allora la felicità, si coltiva? La si eredita? E’ solo un fugace bagliore? O, al limite, non è di questo mondo terreno, come alcune religioni sostengono? Oppure..?
Oppure arriva un giorno in cui ci si rende conto che non solo quello della felicità è un ‘falso problema’ – se per felicità si intende il suo senso etimologico, l’essere fecondo, ricco di doni (della Terra) - , ma che in realtà, nel profondo, in quel ‘famoso punto’ che tutti ci accomuna e ci trascende, c’è già tutto quel che ci necessita, e che non si deve cercare né costruire alcunché. E’ solo da ri-conoscere. Che sollievo. Anche perché il lavoro da svolgere su se stessi per giungere a questa percezione è notevole. Ma un giorno ‘accade’, non si sa come, né perché, semplicemente accade. Quel che possiamo fare è disporci affinché accada. E accogliere questo momento. E ricreare costantemente le condizioni per poter fare sì che questo nuovamente si manifesti.
E allora abbandoniamo il tempo per le discussioni, e lasciamo spazio al silenzio e all’armonia interiore.
Anna Fata

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